PROGETTO COFINANZIATO DAL FONDO EUROPEO DI SVILUPPO REGIONALE 2014-2020

P.O.R. FESR LIGURIA 2014-2020 – ASSE 3 “Competitività delle imprese “, 3.1.1
“Aiuti per investimenti in macchinari, impianti e beni intangibili e accompagnamento dei processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale”.
Digitalizzazione delle micro, piccole e medie imprese.

FESR LIGURIA

Fisioterapia

Fisioterapia

Il metodo di lavoro si basa sulle indicazioni fornite dalla ICF (International Classification of Functioning) stilata dall’OMS e dal modello bio-psico-sociale di valutazione e trattamento del paziente, i quali mettono al centro del percorso di salute non la patologia ma il paziente, valutando i suoi bisogni, i suoi obiettivi e la sua qualità di vita.

Nello specifico, il metodo di riabilitazione Lifter Therapy si fonda sull’utilizzo di tre strumenti di trattamento ad elevata evidenza scientifica di efficacia:

  •     – Educazione al dolore
  •     – Terapia manuale
  •     – Esercizio terapeutico
 

Educazione al dolore

Il dolore è il primo aspetto che viene affrontato nel percorso riabilitativo, che ci si trovi davanti a un infortunio acuto (una frattura, una lesione muscolare o legamentosa) o a una situazione di dolore cronico (come possono essere il mal di schiena lombare o cervicale persistenti nel tempo).

Il punto di partenza nell’approccio al dolore è la sua definizione, dettata dalla IASP (International Association for Study of Pain) e recentemente aggiornata.
Il dolore viene definito come “un’esperienza sensoriale, emozionale, cognitiva e sociale spiacevole, associata alla presenza di un danno tissutale effettivo o potenziale.”

Dalla definizione emergono alcune parole interessanti che meritano di essere riproposte:

  •      – ESPERIENZA SPIACEVOLE
  •      – SENSORIALE
  •      – EMOZIONALE
  •      – COGNITIVA
  •      – SOCIALE
  •      – DANNO EFFETTIVO O POTENZIALE

Ciò che la definizione della IASP vuole dire è che il dolore non è altro che una RISPOSTA PROTETTIVA che il nostro organismo elabora sulla base di informazioni che gli arrivano dalla periferia (nella maggior parte delle volte inerenti a un danno fisico di un distretto corporeo).

Nella reazione di dolore sono però presenti componenti sensitive, affettive e cognitive che interagiscono con le informazioni fisiche provenienti dalla sede del danno e che molto spesso modulano l’esperienza dolorosa, aumentandola.

Vi sarà capitato di colpire lo spigolo di un armadio con un dito del piede e provare molto dolore, ma nei fatti quanto grave per la nostra sopravvivenza si rivela essere il danno che ne consegue?

Uno dei primi concetti sull’educazione al dolore è che molto spesso, in virtù delle interazioni emotive e cognitive di cui abbiamo parlato, non vale l’equazione DOLORE = DANNO.

In parole semplici, in ambito muscolo-scheletrico non c’è particolare correlazione tra dolore e danno.
E questa è un’ottima notizia. O quasi.

Da risposta protettiva e segnale d’allarme volto a informarci della presenza di un possibile pericolo per la nostra salute e sopravvivenza, il dolore, se mal inquadrato e gestito, può trasformarsi in una patologia vera e propria.

Facciamo un esempio:

In seguito a una distorsione di caviglia, è assolutamente normale e necessario provare dolore nel tentativo di camminare. Il dolore ci informa che abbiamo subito una lesione e che questa dovrà guarire prima di poter essere caricata nuovamente. Zoppicare sarà quindi una strategia che la persona adotterà per evitare di provare dolore e permettere alla caviglia di guarire.

Può capitare però che, anche dopo la guarigione dei tessuti lesionati, permanga il dolore tale da non permettere la normale deambulazione e la persona continui a zoppicare.

Ciò può accadere per svariati motivi legati a tutte le componenti citate in precedenza:

  •      – emotive come paura ed evitamento del movimento (=kinesiofobia)
  •      – cognitive come la non conoscenza o le false credenze sui normali meccanismi di guarigione delle lesioni
  •      – biologiche come una non adeguata riabilitazione per recuperare la capacità di carico dell’articolazione.

Ecco quindi che, come detto in precedenza, il dolore si trasforma da risposta protettiva a patologia.

Lo stesso esempio può essere fatto se si parla di mal di schiena, problematica in cui l’educazione al dolore si rivela fondamentale.

Conoscere il dolore, la sua definizione la sua funzione e scopo per il nostro organismo si rivela un’arma fondamentale per il paziente che anche fuori dallo studio del fisioterapista, può dare dei confini al suo problema e gestirlo con maggior consapevolezza e migliorare la sua qualità di vita.

 

Terapia manuale

La terapia manuale, come indica il nome, è quell’insieme di tecniche terapeutiche che prevedono l’utilizzo delle mani del terapista sul segmento corporeo infortunato o dolente del paziente.
L’obiettivo della terapia manuale è quello di desensibilizzare la parte interessata dalla mobilizzazione, ossia di indurre analgesia e alzare la sua soglia dolorifica.

Il risultato dopo un trattamento di terapia manuale è che avremo meno dolore nel segmento corporeo manipolato.

Il meccanismo di funzionamento della terapia manuale è molto complesso. Giustificare i suoi effetti terapeutici e analgesici, adducendo spiegazioni solamente meccaniche (esempio: “grazie a questa manipolazione ti ho riallineato il bacino e ora non avrai più dolore alla schiena”) risulta troppo semplicistico e molto lontano dalla realtà. 

Per quanto sia stato e sia tuttora argomento di dibattito, sono ormai tantissime le evidenze scientifiche che ci dimostrano come non sia possibile modificare l’allineamento corporeo in maniera permanente attraverso manipolazioni e mobilizzazioni.
Per fortuna il nostro sistema muscolo-scheletrico, le nostre schiene, ginocchia ecc. sono progettate per resistere alla deformazione data da forze ben più importanti rispetto a quelle generate dalla mano di un fisioterapista.

Quindi qual è il meccanismo alla base della terapia manuale?
Domanda complessa e ancora oggetto di studi scientifici (Bialosky et. Al, Jospt, 2018)

La visione attuale della comunità scientifica in proposito è che il meccanismo di funzionamento sia il risultato di una serie di fattori, riguardanti contesti diversi:

  •     – Biomeccanici e metabolici
  •     – Neurofisiologici
  •     – Psicologici e sociali

Ecco quindi che la terapia manuale si rivela un’arma molto utile, i cui effetti consistono nel modulare il dolore muscolo-scheletrico, attraverso meccanismi che vanno ben oltre il semplice riallineamento di un segmento corporeo (esempio: una vertebra) fuori posto.

Ma la terapia manuale funziona? E deve essere il trattamento principale di cui il fisioterapista nella seduta con il paziente?

Sì, la terapia manuale funziona se dosata nella maniera corretta secondo criteri scientifici all’interno di un inquadramento globale e individuale del paziente (=modello bio-psico-sociale).

E no, non deve essere il trattamento principale di cui il fisioterapista si serve! O quantomeno non l’unico.
Le evidenze scientifiche ancora una volta ci dicono che alla terapia manuale è necessario affiancare interventi come l’educazione al dolore (che abbiamo già visto) e l’esercizio terapeutico.

 

Esercizio Terapeutico

C’è una bella frase che riassume molto la mia filosofia di lavoro:

“se il fisioterapista da cui stai andando ti propone solo trattamenti a lettino, senza darti spiegazioni e consigli sul tuo problema, senza farti migliorare la tua capacità di muoverti… Allora andare da quel fisioterapista è una totale perdita di tempo.” 

Una volta “spiegati” al paziente i complessi meccanismi che provocano e alleviano il dolore, una volta “scaricato” il sistema con il trattamento manuale con la tecnica più adeguata all’individualità della persona, lo step successivo è il graduale “re-loading” delle strutture per riportarle ai livelli ottimali di forza. 

Questo processo viene effettuato mediante una valutazione accurata della tolleranza al carico della persona che esce da un infortunio o da una situazione di dolore acuto. 

In base a ciò che emerge verranno scelti gli esercizi terapeutici ottimali per “ricaricare” piano piano il sistema nervoso e muscolo-scheletrico. L’obiettivo finale sarà quello di accompagnare il paziente alla ripresa della sua attività lavorativa o sportiva in tutta sicurezza, riducendo al minimo il rischio di recidive. 

Il metodo di lavoro Lifter Therapy quindi cerca di coniugare al meglio terapie passive e attive, riducendo al necessario le prime ed enfatizzando le seconde.

Questo perché le tecniche manuali e strumentali effettuate dal terapista, che non richiedono la partecipazione attiva del paziente (passive appunto per questo) hanno sì un effetto analgesico e desensibilizzante utile nel breve periodo. Ma sul lungo termine non permettono all’organismo di riadattarsi ai carichi che hanno creato il problema. 

Ecco che un lavoro attivo da parte del paziente, sapientemente dosato dal terapista, si dimostra la via più efficace per recuperare da dolori e infortuni.

D’altronde “riabilitazione è mostrare al paziente cosa può fare per sé stesso”. 

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